IN MEMORIA DI RAFFAELLO
Non posso far a meno, in questo 6 aprile 2020, di menzionare il 500.mo anniversario della morte di Raffaello. Pochi giornali ne hanno parlato espressamente oggi (ma molti avevano già presentato pagine e pagine nei giorni scorsi). Riporto qui solo un bell’articolo di Marcello Rosario Caliman comparso sul periodico online Tuttogolfo di Gaeta, nel quale troverete anche una panoramica delle iniziative che erano state previste per la ricorrenza (cliccare qui per aprire l’articolo). Ne ricopio qualche riga:
E cosa accadrà delle mostre in programma successivamente alla National Gallery di Londra? E’ chiusa “Raffaello e la sua cerchia”, piccola ma preziosa esposizione allestita dal 16 febbraio alla National Gallery di Washington, ed è sbarrata a Berlino la mostra che riuniva sei splendide Madonne. A celebrare il divin pittore non rinunciano gli Uffizi di Firenze che lanciano un tour virtuale in tre tappe, alla scoperta dei suoi capolavori ora accolti nelle sale del complesso museale fiorentino.
Ma per me veneziano la data della morte di Raffaello rappresenta anche un punto di svolta nella storia della pittura locale. Se vi era una tendenza verso la creazione di una scuola veneziana, diversa e a mio avviso più feconda di quella romana, la morte di Raffaello ne segna la fine. Negli anni tra il 1500 e il 1520 la pittura veneziana era forse ancora in bilico, ancora tesa verso la purezza della linea, la riflessione e la lirica, la semplicità e la grazia. A Venezia lavorava ancora Vittore Carpaccio (che muore nel 1526: ecco qui sotto il Sant’Agostino nel suo studio, 1502 circa),
Cima da Conegliano (morto nel 1518: e guardate la meravigliosa delicatezza del Battesimo di Cristo della Bragora che è del 1495 e che si trova a pochi passi dal Sant’Agostino del Carpaccio; forse i due pittori s’incontravano per strada dalle parti della Bragora):
Mauro Codussi (morto nel 1504), la cui chiesetta di San Michele e la facciata di San Zaccaria (anch’essa a pochi passi) sono un modo tutto veneziano d’intendere l’architettura classica:
mentre lo stesso Giovanni Bellini (morto pochissimi anni prima, nel 1518), era ancora veneziano nel tocco e nello spirito.
Ma spingeva da Firenze e specialmente da Roma un nuovo modo d’intendere l’arte. Arrivava, invincibile, l’esempio di Michelangelo, tutt’altro che lirico, invece celebrativo, maestoso, imperialistico nella magnificazione dei fasti di principi e papi. Si vedeva già dal Tondo Doni (1503)
che quel ragazzo avrebbe travolto tutti. Personaggi mastodontici, muscoli e potenza dappertutto, imponenza, potere. Come negli archi del suo seguace Sansovino, così pesanti e gloriosi in piazza San Marco di fronte ai loggiati delle Procuratie Vecchie, veneziani e delicati. Stavano per trionfare i Tiziano e i Veronese, gli Aretino e i Bembo, in una Venezia dedita solo all’autoglorificazione. Anche il messaggio di Leonardo stava per essere travolto di fronte allo strapotere dei potenti e all’esplosione dei loro seguaci, i noiosissimi (mi perdoni l’amica Stefania) manieristi, con in testa i due insopportabili Palma. Forse, se Raffaello fosse vissuto a lungo come Michelangelo, se avesse avuto la stessa capacità d’ingraziarsi i potenti…
Pensieri di un non addetto ai lavori, naturalmente. Ma forse qualcosa di vero c’è. Forse con Raffaello la pittura italiana non ha perso solo un grande maestro ma anche la persona che poteva imprimere un corso diverso alla storia dell’arte italiana e in particolare di quella veneziana.
Il giro lungo di Checco Canal
Un veneziano all’estero: andata, soggiorno e ritorno.
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